“Ci chiamano erbacce. Non ci arrocchiamo stupidamente a difesa del nostro territorio temendo lo straniero. Siamo cittadine del mondo; molte di noi sono cosmopolite apolidi. Ci piace infatti viaggiare, conoscere nuovi luoghi, esplorare nuovi orizzonti; veniamo dall’America, dall’Asia, dall’Europa, dall’Africa, dall’Australia. Ci incontriamo, stiamo insieme, non abbiamo pregiudizi. Non siamo consumiste, ci accontentiamo di poco, non amiamo il superfluo. Una crepa su un manufatto, poca acqua, a volte solo della rugiada, poca terra povera che altre specie disdegnano. Siamo individui di mal affare “piante da marciapiede”. Non siamo disciplinate, non stiamo in file o in gruppi ordinati; dicono che portiamo disordine e degrado su strade e marciapiedi invasi da rifiuti, cartacce, escrementi. Ma il degrado siamo noi o sono l’asfalto ed il cemento? Viviamo alla giornata. Fiere della nostra libertà non siamo disposte a sottometterci ad essere accudite, rischiando la vita quotidianamente. Siamo brutte, dicono. Molte di noi in realtà fanno bella mostra di sé in parchi e giardini, ma guai a sfuggire dagli spazi assegnati. E le altre? La bellezza va ricercata, non è l’apparire ostentato e volgare. Dicono che siamo dannose, da eradicare, perché impediamo ad altre specie di crescere e sopravvivere. Forse a volte è vero, è la lotta per la sopravvivenza, ma a ben vedere se si dovessero eradicare le specie dannose sulla terra non ci sarebbero più uomini. A volte produciamo pollini che preoccupano molto e che invadono l’aria satura di gas, micropolveri e veleni. Siamo inutili, dicono, ma forniamo a volte cibo e a volte principi medicinali, a volte fibre tessili, a volte sostanze aromatiche, a volte cibo e rifugio per animali e contribuiamo a depurare l’aria.
Siamo erbacce”.

Questo stupendo brano tratto da “Giungla sull’asfalto. La Flora spontanea delle nostre città” di Daniele Fazio ci introduce nel mondo delle piante selvatiche che, sebbene malviste e continuamente combattute, colorano marciapiedi, strade, antiche mura e tutti i posti più insoliti di una città. Eppure offrono tesori e proprio per questo mi è venuta in mente la Capparis spinosa per meglio dire la pianta del cappero. La mia ispirazione nasce dall’osservazione e se qualche mese fa la strada che mi porta al lavoro mi regalava stupende nuvole rosa dell’Albero di Giuda, ora poco più in là, sulle mura Aureliane di Roma, cascate verdi piene di fiori si offrono al mio sguardo stupito…stupito perché fino a qualche tempo fa c’erano delle piante rinsecchite dal passaggio dell’inverno. Ora invece sono tornate al loro normale splendore, traendo vigore da pochissima terra sedimentata nei minuscoli spazi dell’opus latericium.

Il cappero, quello che usiamo in cucina non è altro che una diffusissima pianta rupestre. Il “rupestre” da subito suggerisce l’indole della specie, direi un tipo abbastanza semplice, frugale, ma di una bellezza mozzafiato con la quale ricambia l’ospitalità dei luoghi aspri in cui vive.
Di origine euroasiatica ormai il cappero si è naturalizzato in tutto il mediterraneo, grazie agli Arabi che lo diffusero intorno al XVI secolo. Il nome ha diverse etimologie, dal greco “kapparos” forse derivante da “Kypros” ovvero Cipro, l’isola dove cresce rigoglioso o, sempre dal greco, “kapros” cioè capra, che va ghiotta di capperi, ma potrebbe derivare anche dall’arabo “al-qabar” che ugualmente significa capra.
Presenta numerosi e lunghi rami pendenti, ha robuste radici che l’ancorano con forza sulle rupi e grandi fiori bianchi, solitari, con 4 sepali verdi e 4 petali in croce, con numerosi e lunghissimi stami con antere violette sulla sommità che danno quel particolare colore al fiore nel suo insieme. Il cappero che mangiamo non è altro che il bocciolo portato su un lungo pedicello che, se raccolto tempestivamente, appassito un giorno all’ombra e conservato sotto sale o sott’aceto, darà quel tocco di sapore ad un bel piatto di “spaghetti alla puttanesca” e perdonate il francesismo ma è una delle mie ricette preferite: spaghetti conditi con un sugo di pomodoro, aglio, olive nere di Gaeta, prezzemolo e capperi…nella variante napoletana ovviamente, cioè senza le povere alici!

Ma non finisce qui perché il Cappero ha anche virtù toniche e aperitive (lassative); è diuretico e astringente, caratteristica comune anche alle radici. Si può preparare anche il vino di cappero, che avrebbe proprietà antiuriche, stimolanti e digestive, come? È sufficiente mettere a macerare 60 g di scorza della radice in due litri di vino rosso. Se poi volete giocare al piccolo chimico potete preparare un infuso acquoso o alcolico con i fusti della pianta e così verrà rivelata la presenza di acidi, dal colore rosso e delle basi, dal colore verde della vostra pozione magica.
Avete capillari che si dilatano facilmente colorando di rosso il vostro viso? Provate ad applicare sulle vostre guance, senza però abusarne, la polpa fresca dei boccioli.
Insomma una pianta dalle mille virtù oltre l’evidente bellezza che in Sicilia, la patria italiana per eccellenza del cappero, ha ispirato l’espressione “Spararisi a chiappara” indicando, in dialetto catanese, qualcuno che fa sfoggio di eleganza al pari dei fiori di Capparis spinosa.

Ora che vi ho rivelato l’identità di quei manti erbosi sulle mura delle nostre città, non vi trasformate in capre golose in preda alla voglia di raccogliere quanti più boccioli possibili e sperimentare il mitico sughetto, semmai, in estate, prelevate un rametto legnoso e fate una talea, i risultati non tarderanno ad arrivare e nel frattempo sbocceranno altri fiori!
Capperi!!!

Ippolita Sanso

 

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